Sin dall’antichità il gioco ha accompagnato la vita dell’uomo, come espressione delle stesse capacità cognitive e sociali che ci rendono umani.
Nell’antica Roma la dea Fortuna veniva invocata per propiziare il successo e, in quelle invocazioni collettive, si intrecciavano desiderio, speranza e destino. Giocare era un modo per confrontarsi con l’imprevedibile e per sentirsi parte di qualcosa di più grande: un esercizio simbolico di rischio e fiducia, dove il fato diventava immagine della condizione umana.
Molti secoli dopo, nel Medioevo o nei palazzi del Rinascimento, il gioco ha cambiato forma ma non senso. Nelle taverne e nei cortili si lanciavano dadi, nelle corti si sfidavano carte finemente decorate.
A Venezia, nel Seicento, la Serenissima apre il Ridotto di San Moisè, considerato il primo casinò pubblico regolamentato d’Europa: un luogo di mondanità e di ordine, dove la fortuna conviveva con la regola, la curiosità e con la misura.
Dalle sale illuminate dei casinò ottocenteschi ai saloni termali di Baden-Baden, Monte Carlo e Sanremo, il gioco diventa, nei primi del Novecento, parte della vita sociale e della ricerca di svago, ma anche un terreno di ambiguità. La storia del gioco è sempre stata la storia del suo equilibrio: tra libertà, libertinismo e regola, tra desiderio e misura.
Così, se l’antica Roma aveva visto nella Fortuna una dea, l’Europa moderna imparò a considerarla una responsabilità collettiva: qualcosa da gestire, da comprendere e regolare.
Le luci di Las Vegas o Macao, capitali del sogno e dell’azzardo, dove milioni di persone cercano emozioni, incontri ed evasione, trasformarono la fortuna in spettacolo, il sogno in architettura. Le città del gioco sono diventate il simbolo dell’immaginario moderno e contraddittorio: luoghi in cui tutto è possibile, ma dove il confine tra libertà e illusione si assottiglia. Dietro la promessa di vincita si nasconde spesso la ricerca di compensazione, di riscatto personale, di fuga dal reale.
Eppure, dietro quella fascinazione universale, resta intatto il bisogno originario dell’uomo di giocare per sentirsi parte del mondo, per misurarsi con il caso, per condividere un’emozione.
Il gioco affascina perché unisce: è un linguaggio universale, trasversale a età, ceti e culture.
Ma quando perde la sua misura e smette di essere un gesto di relazione, può trasformarsi in una dipendenza.
In Italia, il gioco pubblico regolato dallo Stato è la risposta a questa complessità: non per negare il rischio, ma per contenerlo, renderlo visibile, controllabile.
È la dimensione sociale e civile del gioco: quella che tutela i cittadini, contrasta l’illegalità e preserva la libertà individuale. Dove cresce il gioco legale, diminuisce quello clandestino ma cresce anche la consapevolezza che il rischio non sparisce: si governa.
Il fato non basta: serve responsabilità. E la vera fortuna, oggi, è essere in grado di scegliere, responsabilmente.
Dal fascino del caso alla responsabilità della scelta
Per secoli abbiamo affidato alla Fortuna il peso delle nostre scelte. L’azzardo, del resto, nasce da “az-zahr”, la parola araba per dado: simbolo del caso, ma anche del desiderio di controllarlo.
Oggi, più che mai, viviamo il rischio di fare lo stesso: quando il caso diventa alibi, la sorte un pretesto, la perdita un’ingiustizia.
La mente del giocatore tende naturalmente a distorcere la percezione del rischio: è il cosiddetto “pensiero magico”, la convinzione di poter gestire l’imprevedibile.
Prendere responsabilità non significa pretendere di controllare tutto. Significa, piuttosto, riconoscere i propri limiti e automatismi, ammettere che esistono bias cognitivi, abitudini, ferite che condizionano il comportamento e che vanno riconosciute, non negate.
Non c’è solo la volontà individuale: ci sono predisposizioni, pressioni sociali, stress, isolamento. Rendersi conto che qualcosa ci sfugge non è una sconfitta: è un atto di lucidità. È il primo passo per trasformare la consapevolezza in scelta, la fragilità in misura.
Nel gioco, come nella vita, fermarsi a guardare ciò che accade dentro di sé è il gesto più difficile ma anche il più responsabile. Fare un passo indietro non sempre significa arrendersi: a volte è il modo più onesto per ricominciare a camminare nella direzione giusta.

